Quello che era la pallacanestro
(e che non sarà più)

Tutto si riassume in una sentenza molto semplice: esistono buone e cattive maniere di fare le cose.
Si può allenare il tiro otto ore al giorno,
ma se la tecnica è sbagliata,
avremo un giocatore che sarà buono per tirare male.

La citazione è di un uomo che nella sua carriera ha sbagliato più di novemila tiri e ha perso quasi trecento partite, ma che alla fine ha vinto tutto e riassume in pieno l’idea che ho dello sport in generale, dove la tecnica, i fondamentali, vengono prima di tutto.
Risultato compreso.
Perché sono un purista.

Nel rileggere i vecchi post, mi sono lasciato prendere dalla nostalgia su Tempi Migliori, ovvero le tre partite che ho nel Quore e che rigiocherei anche subito.

Quando penso alla pallacanestro, la primissima cosa che mi viene in mente è l’aver buttato nel cesso quasi 20 anni.
Dico davvero.
Eppure, ricordando i primi periodi, tutto potevo pensare tranne che ciò che credevo fosse “l’amore della mia vita” si trasformasse in un rapporto conflittuale come quello che ha avuto Andrè Agassi con il tennis. Ovviamente non le dovute proporzioni.
Le partite su Telemontecarlo prima e su Telepiù poi che o vedevo o registravo, l’appuntamento settimanale con Superbasket e bisettimanale con American Superbasket ed il conoscere TUTTI i roster delle varie squadre NBA ed europee. Il mio pigiama è stato per anni la canottiera dei Bulls col 23 e dormivo con i calzini di spugna proprio come Rasheed Wallace because I never knew if a game broke out. Ho passato ore con la mano appoggiata al muro a frustare col polso per migliorare il rilascio e ore sulle scale di casa a fare i piegamenti sugli avampiedi per rinforzare i polpacci. Ma soprattutto, avrei giocato ovunque e dovunque. Mi bastava trovare un semplice cestino della nettezza per appallottolare una cinquantina di fogli di carta e cominciare a tirare da ogni posizione e in ogni modo.
A pensarci adesso mi viene da ridere.
O meglio, penso che avrei sprecato il mio tempo in modi migliori.

Non c’è stato un momento preciso in cui mi sono disinnamorato di questo giochino, ma sono state un susseguirsi di cose che mi hanno portato ad avere gli urti di vomito che ho adesso ogni volta che mi capita di vedere una partita su Sky.
Il motivo principale è che in qualsiasi squadra ho giocato c’è sempre stato qualcuno che era più bravo di me: chi era stato comprato da fuori Firenze, chi era più di due metri, chi aveva fatto il settore giovanile a Montecatini/Livorno/Siena e chi era uno psudo talento cresciuto in casa. In più, la pallacanestro è lo sport più razzista che esiste perché basta avere un colore leggermente più scuro del rosa caucasico che automaticamente sei un “fenomeno” a prescindere.
Tutti più bravi, anche se poi questi campioni così etichettati dai Santoni fiorentini, non valevano neppure la mia mano sinistra.
Ma ogni anno ad inizio stagione dovevo partire dalla seconda o terza fila e dover sempre dimostrare. Sempre. E’ bello, gratificante e la figura dell’underdog mi affascina da quando sono bambino, ma alla lunga stanca, specialmente quando invecchi e “nell’ambiente” ti sei fatto già il tuo nome.
Non sono mai stato un fenomeno e l’ho sempre saputo, però ci sono alcune cose che ho sempre fatto meglio di tanti altri e nonostante questo, ho sempre trovato qualcuno che non mi ha mai messo in condizione di fare il mio gioco.
Non voglio dare la colpa agli allenatori. Li ho sempre stimati tutti dal primo all’ultimo e mi metto nei loro panni: non dev’essere facile allenare uno che ciondola sul parquet con l’aria di non avere voglia e di essere lì per caso. Però, il mio divertirmi in campo è stato inversamente proporzionale al divertirmi negli spogliatoi (in quello sono stato bravissimo dato che, non prendendo mai neppure un centesimo, ho sempre scelto squadre con ragazzi che conoscevo già o che poi sono diventati gli amici che tutt’ora vedo e frequento). Ho sempre voluto la palla in mano fronte a canestro e me l’hanno sempre data spalle. Il fadeaway nasce per questo motivo: era il mio modo per andare contro chi mi imponeva di fare il maiale dentro l’area. Non mi è mai interessato fare 20 tiri a partita (anche perché nelle “mie” categorie, chi prende 20 tiri a partiti andrebbe impiccato per le palle), solo toccare il pallone ad ogni azione e vedere il gioco a 360°.
La mia generazione è piena di giocatori che sanno cosa fare con la palla in mano. Poi possono essere più o meno bravi e più o meno talentuosi, ma è difficile che un cestista che si è formato negli anni ’90 sbagli dieci scelte su dieci. Cosa che invece, purtroppo, accade con i ragazzi di oggi.
Lo si vede da tante cose: dal fatto di non saper passare la palla, al non avere un minimo di fondamentali e all’avere una mano debole che è davvero debole. Per non parlare delle canotte che comprano e dei giocatori che osannano. Se ti piace Russell Westbrook vuol dire che la pallacanestro non l’hai mai vista, perché quando cresci con la pallacanestro degli anni ’90 non puoi appassionarti a quella di oggi, dove i giocatori sono tutti geneticamente modificati tipo Jennifer Garner in Alias. Come scrissi nel primo post anti LeBron, nello sport non riesco ad accettare i cambiamenti, a meno che quei cambiamenti non siano tecnici. Quando il cambiamento è prettamente fisico invece, mi innervosisco e provo un certo fastidio verso le squadre e i giocatori che hanno fatto della loro fisicità la propria forza.
L’ho scritto in apertura del post: sono un purista in tutto quello che amo e uno come Russell Westbrook toglie purezza ad uno sport che fino al 2003 aveva nobiltà e dignità. Prendete l’All Star Game. Prima era una partita che meritava di essere vista, perché sul parquet c’era il meglio del meglio. Oggi no. E’ una gara a chi ha il pisello più lungo, dove il gioco passa in decimo piano ed il motivo per cui il Dream Team di Barcellona ’92 è la più grande squadra di sempre è perché era formata da 10, ehm 9 anche se Christian Laettner non era poi così indegno, libri di tecnica e fondamentali.

La pallacanestro non esiste più.
A causa dell’NBA di oggi e delle cosiddette nuove leve, che si fanno le seghe su LeBron e Westbrook e che sono cresciute con gli smartphone, i reality e il Jersey Shore.
Si sentono padroni del mondo e non rispettano qualsiasi tipo di regola. Compresa quella, sacra, dello spogliatoio. Essere giovane ai miei tempi significava stare ad un cameratismo più o meno criminale, dove alla base c’era il rispetto per i Senatori e il dover essere il primo che arrivava all’allenamento e l’ultimo che usciva dal campo. Tiri zero, neppure allo scadere dei ventiquattro secondi e se per caso ti scappava un jumper dalla media (ovviamente smarcato) dovevi chiedere scusa anche se lo segnavi. Ma era giusto così. Mai mi sarei sognato di dire qualcosa ad uno di 35/40 anni che aveva giocato duecento partite.
Oggi invece è tutto dovuto e guai ad aprire bocca.
Questa volta è sì colpa degli allenatori (anche se con una giustificazione). In primis perché non gli insegnano a giocare e poi perché li difendono nonostante siano scarsi come la morte. Però è anche vero che non essendoci più i soldi dei miei tempi, un giovane oggi è un’entrata e anche se è un incapace non si può più dirgli di provare a fare altro.
Mi è capitato di vedere ragazzi che bazzicano le nazionali giovanili e le varie rappresentative regionali e vi giuro che non hanno idea. Gente che nel mio Affrico 1998/99 non avrebbe fatto neppure il decimo. Ed è inutile che vi stia a dire come vengono considerati, quando in realtà la loro unica fortuna è quella di essere nati in un periodo dove il livello è talmente basso che basta andare leggermente più veloce del proprio avversario per essere etichettato come “talento”.

Purtroppo, a giro non c’è altro e l’idea è che ai vari Santoni questa cosa non interessi. Bisognerebbe tornare alla Genesi. A quando, ad esempio, i calciatori stavano mesi a passare il pallone al muro, ma non c’è tempo. Si va tutti troppo di fretta e oggi non conta più insegnare, conta solo il risultato.
Ha ragione MJ, come sempre del resto: se la tecnica è sbagliata,
avremo un giocatore che sarà buono per tirare male.

Mi manchi Drazen.
Mi manchi tanto.

Il post è di Matteo Aiello, tratto da thehardboiled.net (seguitelo su facebook).

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